domenica 9 settembre 2012

Matsuri!

La domenica è passata e, nonostante sia molto tardi, non è semplice andare a dormire. Il Giappone mi sorprende ogni anno e lo fa sempre in un modo diverso.

TDG: Tutti al lavoro nell'aula di Manga
L'open day di sabato al Toyko Design Gakuin College è stato molto più leggero del solito ma tutti si sono divertiti comunque molto, grazie anche all'esuberante personalità di Marco e al suo frasario di Giapponese fatto in casa.
Kawaguchi sensei ci ha accolto direttamente all'ingresso con un abbraccio e ci ha accompagnato nelle aule di manga dove studenti e insegnanti hanno disegnato insieme per un paio d'ore.

Sui banchi abbiamo trovato, come al solito, i book degli studenti della scuola che hanno esordito quest'anno e, in particolare, abbiamo notato i lavori di una ragazza tailandese del secondo anno. Sia gli originali che la pubblicazione. Impressionanti.
La scuola è piaciuta a tutti. Non avevamo dubbi. Questo college è uno dei più vecchi istituti pubblici del Giappone dedicati specificamente a design e arti grafiche. L'edificio a più piani rivestito a mattoni è stato aperto nel 1963 e conserva un fascino vagamente europeo.

Haru san ha voluto la consueta foto di gruppo con la nostra classe, anche se non al completo, nel suo laboratorio-aula di effetti speciali e ha mostrato di apprezzare il Vin santo e i cantuccini che gli abbiamo portato dalla Toscana.

Il presidente dell'istituto è venuto a salutarci di persona. Lo incontreremo di nuovo prima di tornare a casa per valutare insieme alcune possibilità di collaborazione. Il resto del pomeriggio è stato libero per tutti.

Poi è arrivata la domenica. Il giorno del Matsuri.
Il Mikoshi piccolo

All'inizio eravamo tutti molto preoccupati. Alla fine eravamo molto doloranti ed esausti.
All'inizio eravamo turisti. Alla fine eravamo di casa.
Ciò che c'è stato nel mezzo può essere raccontato in modo scientificamente preciso e potrebbe cominciare così: a Komagome, un'area di Tokyo, ci sono 13 "città", ognuna ha un Mikoshi, un tempietto che la tradizione vuole che contenga un frammento dell'anima della Dea Amaterasu. Dal nono secolo, ogni anno, questo tempietto di 700 kg circa viene portato a spasso per il quartiere da una trentina di portatori. Si fanno varie tappe e, ad ogni tappa, i portatori vengono rifocillati con bevande e cibo.
Ogni quattro anni fa la sua comparsa anche il Mikoshi grande. Pesa poco più di 2 tonnellate e per portarlo servono un'ottantina di persone. In queste occasioni si portano entrambi i Mikoshi. Il trasporto di quello grande è suddiviso in 13 tratti, uno per città e ogni città lo porta nel proprio tratto con i propri portatori. Per quello piccolo tutto funziona come sempre.
Alla prima tappa
L'intero matsuri dura circa 4 ore. I portatori si danno periodicamente il cambio perché, soprattutto sotto il Mikoshi grande, è quasi impossibile resistere più di 4-5 minuti consecutivi.
Le travi che sorreggono il tempietto sono di legno massiccio laccato. Ogni volta che perdi il ritmo, fanno un male cane sulla spalla, ogni volta che un portatore viene sostituito, fanno un male cane sulla spalla, ogni volta che ci si ferma o si riparte, fanno un male cane sulla spalla... insomma, c'è un motivo per cui tanti giapponesi che erano con noi erano stati arruolati per la prima volta e tutti gli altri erano intorno in borghese a fare foto.
Il Mikoshi a prima vista sembra pesante ma in realtà è molto molto peggio. Molto.

L'altro modo in cui si può raccontare la giornata è invece più emotivo e complicato. Se vi basta la parte scientifica smettete pure di leggere a questo punto. Il resto è noioso.

I giapponesi sono timidi. Sakamoto san, la nostra "arruolatrice" del matsuri, nonché responsabile esteri della Graphic-sha, lo dice sempre quando parliamo delle differenze tra i nostri due Paesi.
Carichiamo il piccolo
È vero. Fondamentalmente i giapponesi hanno difficoltà a relazionarsi perché la loro morale si fonda sul rispetto per gli altri e l'importanza dell'onore. Questo gli crea non pochi problemi tra cui la difficoltà a mostrare quello che provano e, quindi, a socializzare.
Il Matsuri fa abbandonare molte di queste barriere.
Siamo stati vestiti con lo happi (giacca da matsuri) della "città" di Fujimae, abbiamo indossato i tabi con la suola di gomma e ci hanno fatto portare il Mikoshi più a lungo di chiunque per dimostrarci che si sentivano onorati della nostra presenza. Ciò nonostante, all'inizio, eravamo stranieri.
Poi, tappa dopo tappa, i capelli biondi di Talita, il rosso della testa di Ilaria, gli occhi chiari di Giusy, le posizioni assurde di Marco che continuava a cercare una strategia per compensare la fatica addizionale data dalla sua altezza superiore alla media nipponica, sono diventati parte integrante della festa.

Allora i giapponesi hanno smesso di essere timidi e hanno chiesto di noi; da dove veniamo, cosa facciamo, quanto restiamo, per quale motivo siamo lì ad aiutarli invece di stare con gli altri turisti a fare foto e hanno cominciato a raccontarci di loro. Dal vigile del fuoco all'estetista, dal cuoco all'addetto marketing della ditta farmaceutica. Con la sincera voglia di avvicinarsi, piuttosto che spinti dalla curiosità per chi viene da lontano.
Tanto poi, l'obiettivo di tutti alla fine di ogni pausa era riprendere il Mikoshi e fare del nostro meglio.
Tutti uguali. Tutti insieme. Tutti troppo stanchi per tenere distanza. Ognuno consapevole del fatto che l'assenza di distanza, in questo momento particolare, non sarebbe stata intepretata come mancanza di rispetto.
È stato come abbracciare forte questa terra per ringraziarla di quello che ci sta dando, ogni anno di più. Per questo, credo, ognuno di noi ha portato il Mikoshi in tutte le tappe senza mai tirarsi indietro o tenersi ai margini.
Alla Tanuki Shokudou
Alla fine ci siamo ritrovati alla Tanuki Shokudou. Una sorta di osteria povera di meno di 28 mq, bagno e cucina compresa, dove abbiamo passato la serata mangiando e bevendo in più di trenta persone. Tutto a carico del proprietario che è anche uno degli organizzatori del Mikoshi di Fujimae. Nonostante non abbia bevuto una sola lacrima di sake, non sono in gardo di raccontare questa parte della serata. Lascio spazio ai commenti di chi era presente per aggiungere dettagli.
Alla fine ci hanno salutato con un "ci vediamo l'anno prossimo"...

Tokyo non è una bella città. Urbanisticamente è un disastro. Ognuno può fare quello che vuole purché sia antisismico e non esca dai confini del proprio terreno. La gente è all'apparenza fredda anche se rispettosa e gentile. Non succede praticamente mai niente e quindi è molto sicura. Stare bene a Tokyo è semplicissimo; basta accettare la condizione di trovarsi in un altro Paese ed essere disposti a rinunciare all'idea, a cui siamo troppo abituati in Italia, di essere il centro dell'universo.

Sentirsi a casa però è un'altra storia. Forse chi di noi è qui per la prima volta impiegherà un po' per metabolizzare la sensazione. Forse nemmeno arriverà a capire quanto questa giornata sia stata preziosa.
Personalmente, quest'anno non mi ero prefisso alcun obiettivo perché tutte le collaborazioni avviate in precedenza stanno dando più frutti del previsto. Tuttavia questa domenica vale da sola questo viaggio e aggiunge una pietra importante al lavoro fatto negli ultimi cinque anni per creare una strada diretta, un legame forte tra la nostra scuola, la nostra casa e questa parte del mondo. Poco importa se, per una volta, anziché cenare con mangaka e animatori, abbiamo condiviso il cibo con elettricisti, programmatori, bancari o giardinieri.

Se si impara ad osservare è facile capire la logica su cui si fonda lo spirito della società giapponese. Ma senza questo contatto non è possibile arrivare a sentire quello spirito dentro di sé.

Tornerò a Fujimae. Finché potrò e sarò ben accetto, porterò volentieri quei 700 chili di legno, e probabilmente piombo o uranio impoverito con cui è stato costruito il Mikoshi, sulle spalle sperando di conservare i lividi abbastanza a lungo da poterli mostrare anche nei giorni seguenti con lo stesso orgoglio di tutti gli altri. Non mi allenerò durante l'anno per "fare bella figura", frase totalmente priva di senso in giapponese, ma quando sarà il momento farò del mio meglio.
Come, in questo luogo, fanno tutti. Ogni giorno.

1 commento:

  1. Molto bello il tuo racconto.
    Sono d'accordo: osservare e condividere è un buon binomio per trovare un contatto con altre culture.

    Leggo e penso che prima o poi dovrò spingermi di più verso est e non sempre e solo a sud.

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